Stamattina il caffè ha un sapore più dolce del solito. E ho l’impressione che questo addolcisca tutto quello che penso e quello che vedo.
Ieri è stata una giornata di messaggi. Alcuni brutti, di quelli che la mattina quando ti alzi, sai già che forse arriveranno, perchè ti svegli quasi come un senso di attesa fastidiosa, che svanisce all’improvviso, quando senti il ‘din’ giusto. Non tutti i ‘din’, ma tra tanti il tuo cuore lo sa qual è e te lo prepari ad ascoltare. E ascolti….
Poi, a sera tarda, ne arriva uno bello, anche quello lo aspettavi da tempo, ma non sapevi quando sarebbe arrivato. Ci sono cose della vita che, nonostante la tua caparbietà, la tua forza di volontà, non puoi forzare. Ci sono situazioni e scelte che si sistemano da sole, perchè devono seguire il proprio corso. C’è un tempo per tutto… e tu non puoi comandare sul tempo. E’ come se qualcuno avesse deciso per noi da molto, quale debba essere il percorso che dobbiamo fare. E a noi non resta altro da fare che chinare il capo e accettare tranquillamente. Ho alzato mille volte la testa e i pugni, per lottare, con forza e urlando, ma mai, dico mai, ho ottenuto quello che volevo. Ho dovuto aspettare. E poi quasi magicamente le cose hanno fatto il loro corso e le soluzioni sono arrivate.
Io ho scelto lei e lei ha scelto me. Quando si va in giro in cerca di una nuova casa, non bisogna mai studiarne i particolari o ostinarsi a ragionarci su. Si parte da quanto puoi spendere e si scartano subito i sogni impossibili. Tra quelli raggiungibili si entra con cuore aperto e bisogna afferrare al volo la prima sensazione che vivi. La prima e solo la prima. Quelle che seguono sono di contorno e di affinamento. E’ il primo assaggio. Come di un vino, di una buona cioccolata, di un piatto speciale. Devi catturare la prima impressione. E su quella ragionarci. Capire il perchè, e vedere se tutte le risposte bastano ad accettare anche le cose che non vanno. Poi si va via e ci si dorme su. E la scelta viene da se. Se non ti torna in mente più significa che non ti è entrata dentro. Se invece cominci a pensarci significa che ‘si può fare’, si può tentare….
Di certo farò mie le storie che mi racconterà, le storie di chi ci è passato, assorbite dai muri e dagli oggetti che troverò. Perchè se in una casa c’è stato amore, amore si respirerà.
Inizia ora una nuova fase della mia vita. Un nuovo capitolo. Una nuova casa da vivere, da aggiungere a quelle che ho. Aprirò un nuovo spazio, fuori e dentro di me. Vivrò un pò qui e un pò li, vagabonda per raggiungere chi amo, sempre con la valigia pronta.
Vedremo (anche perchè non si conosce bene la data di inizio di questa avventura….)
Ora passiamo alla ricetta.
Anche in questo caso aspettavo il momento giusto per pubblicare questa ricetta. E, aspettando aspettando, è arrivato. Oggi si parla di ‘cozzelle’, come si chiamano da noi le lumache. Si si, proprio quelle che si portano la propria casa con se, sempre e ovunque. Quasi una metafora di quello che siamo anche noi, che ovunque ci spostiamo, ci portiamo dentro quello che davvero è casa, i nostri affetti.
Ogni luogo ha la sua ricetta per le lumachine, e io qui vi racconto la mia. Ricetta e storia.
Nei giorni di estate, dopo gli acquazzoni che profumano l’aria di buono, quando i campi sono pieni di ‘rstùcc’, gli steli tagliati dopo la mietitura, si aspetta che il caldo faccia venir fuori le lumache. E così, dopo la pioggia, magicamente compaiono, tutte appollaiate sugli steli, sulle pietre dei muretti a secco, sui tronchi degli alberi di mandorlo, di ulivo e di ciliegi. E allora tutti dicono… ‘Dai, andiamo a cozzelle?’. E si va a raccogliere tutte queste sprovvedute, che comunque non potrebbero mai scappare, scansando quelle sulle erbe amare. Si mettono in un contenitore che si può coprire, perchè prima o poi, rendendosi conto della fregatura, tentano di scappare, lentamente, venendo fuori e salendo salendo nel cesto, verso l’uscita.
Certo questa ricetta è crudele, ma appartiene ad un tempo dove non si badava tanto a fare gli animalisti. Era buona e basta, faceva parte quasi del gioco della vita, dove animale mangia animale e basta. E le cozzelle erano semplicemente uno dei piatti estivi, raccontato e sognato, passeggiando con i bambini nei campi. E basta. Quindi ora, chi è troppo sensibile per continuare, si fermi pure qui.
Si portano a casa e si mettono a ‘spurgare’, brutta parola, ma necessaria. Per un giorno almeno, in uno scolapasta coperto. Devono ‘liberarsi’ del superfluo prima di essere cucinate. Quindi si lavano e si mettono in una pentola alta, in acqua fredda, sul fuoco medio. E la crudeltà sta proprio qui. Non bisogna far capire loro la sorte che li aspetta. Accarezzate dolcemente dall’acqua che diventa tiepida, vengono fuori, ignare. Appena fuori, si alza la fiamma per …. continuare. Si formerà una schiumetta che va tolta. A questo punto si aggiungono gli aromi. Origano, pomodori, prezzemolo, aglio, un filo d’olio e una foglia di alloro. Si copre con un coperchio e si fanno cuocere per almeno un quarto d’ora.
Per gustarle al meglio e in maniera primitiva, si mangiano succhiandole (ma gli schizzinosi, le prendono con lo stuzzicadenti). Per facilitarne l’uscita, con i denti si fa un piccolo buco nel guscio, ma bisogna aver acquisito una certa abilità, dopo anni e anni di allenamento, per capire qual è il punto esatto. Decisamente non è un piatto proprio raffinato, ma più uno sfizio ricercato, per chi non ha paura di sporcarsi, e per chi non si innervosisce a sentir gli altri fare quel rumore inevitabile e fastidioso dei tentativi di … aspirazione della lumaca.
A me piace e mi ricorda la mia infanzia, quando ancora, non si alzavano polveroni al suon di ‘Che peccato le cozzelle!’. Ma la prossima estate, provate anche voi e poi ne riparliamo.
Alla prossima.